Il prossimo mese di marzo ricorrerà il 5° anniversario di quello che era iniziato come un altro capitolo della cosiddetta "Primavera araba", che si è trasformata in una guerra civile, degenerata in una catastrofe umanitaria e che infine ha condotto al crollo sistematico della Siria come stato-nazione.
Questa sequenza di eventi ha avuto un profondo impatto sulla quasi totalità della regione conosciuta come il Grande Medio Oriente, incidendo su molti aspetti dei paesi che ne fanno parte che vanno dalla demografia, alla composizione etnica e settaria, fino alla sicurezza. Poiché lo scopo di questa analisi non è offrire un resoconto storico degli eventi, sarà sufficiente un breve riassunto di alcuni aspetti chiave.
Cinque anni fa, quando ebbe luogo la prima manifestazione di protesta a Daraa, nel sud della Siria, la maggior parte del cosiddetto "mondo arabo" aveva grandi aspettative in seguito alle rivolte in Tunisia, Egitto e Libia che sembravano aver posto fine a decenni di governi dispotici la cui autorità di comando era esercitata da organi dell'apparato militare e di sicurezza dello Stato. Nonostante le importanti differenze, lo Stato siriano all'epoca corrispondeva alla descrizione del tipico modello di Stato arabo elaborato dopo la Seconda guerra mondiale.
Pertanto, non è utopistico pensare che si sarebbe potuto reagire ai primi segnali di malcontento popolare esattamente come avevano fatto altri Stati del mondo arabo a esso simili. Una differenza importante è che quando ebbero inizio le rivolte, lo Stato siriano, probabilmente il più repressivo nel mondo arabo moderno – a parte il regime di Saddam Hussein in Iraq – si era imbarcato su un programma di timide riforme e liberalizzazione. Il nuovo dittatore, Bashar al-Assad, aveva cercato di far credere di essere un riformatore che aveva studiato in Occidente e attratto dagli aspetti del pluralismo e dall'economia di mercato. Egli aveva consentito la comparsa delle prime banche private e privatizzato una serie di aziende statali. Aveva anche permesso ai privati di assumere il ruolo guida in un certo numero di nuovi settori, in particolare la telefonia mobile e Internet. A dire il vero, le nuove banche, le società privatizzate e le imprese che utilizzano nuove tecnologie erano quasi tutte di proprietà dei membri del clan Assad e dell'apparato militare e di sicurezza che vigilavano su tutte le attività. Tuttavia, qualche osservatore occidentale arrivò a pensare che il giovane Assad stesse compiendo i primi passi necessari verso le riforme. Questa impressione fu rafforzata dal fatto che il regime aveva consentito la comparsa di un certo numero di organizzazioni non governative (ONG) attive in una serie di settori, come ad esempio i diritti umani, sia pure sotto lo stretto controllo dei servizi di sicurezza.
Le potenze occidentali cercarono di incoraggiare ciò che consideravano un lento processo di riforma offrendo aiuti economici ad Assad, in gran parte attraverso l'Unione Europea, e manifestando rispetto a livello diplomatico. Assad fu invitato a compiere visite di Stato di alto profilo, come ad esempio in Gran Bretagna e Francia, dove era seduto in prima fila sul palco delle autorità alla parata militare del 14 luglio, a Parigi.
Nel momento in cui i manifestanti si radunavano a Daraa, l'amministrazione Obama stava preparando il terreno per la visita di Assad a Washington, alla presenza di una serie di democratici di spicco autori di editoriali che tessevano le lodi del leader siriano, come riformatore e moderato.
L'allora capo del Comitato per le Relazioni estere del Senato statunitense, John Kerry, aveva instaurato un rapporto di amicizia personale con Assad, che aveva incontrato in una serie di visite a Damasco, dove tra le rispettive mogli si era creato un legame di simpatia.
Anche il fatto che le relazioni di Assad con l'amministrazione Bush fossero state burrascose, per non dire altro, aiutò molto l'immagine del leader siriano con l'amministrazione Obama, che stava costruendo una politica estera fondata su sentimenti anti-Bush. (Bush aveva costretto Assad a porre fine all'occupazione siriana del Libano; Assad aveva reagito consentendo ai terroristi islamisti di attraversare la Siria per andare a uccidere gli americani in Iraq.) Per trent'anni, il padre di Assad. Hafez al-Assad era stato l'unico leader arabo ad avere degli incontri a quattrocchi con tutti i presidenti americani da Richard Nixon a Bill Clinton. Il presidente George W. Bush aveva rotto quella tradizione non conferendo lo stesso privilegio a Bashar al-Assad.
Alla fine, il regime di Assad reiterò l'esperienza di quasi tutti i regimi autoritari che avevano sperimentato la formula della "riforma guidata".
Un regime autoritario non è mai così in pericolo come quando tenta la strada della liberalizzazione. Inoltre, non tutti i regimi autoritari hanno meccanismi efficaci per apportare le riforme. In alcuni casi, la scelta è tra reprimere le rivendicazioni popolari e il rischio di un cambio di regime. Come sanno bene i latinoamericani, se la dictablanda (la dittatura morbida potrebbe essere riformata, la dictadura (la dittatura forte) deve essere rovesciata.
Dopo un breve periodo in cui, come Amleto, si chiedeva se dovesse uccidere o non uccidere, Assad optò per il secondo dilemma, inviando i suoi carri armati a reprimere la rivolta di Daraa. La formula era stata sperimentata nel 1982 sotto suo padre, il generale Hafez al-Assad, a Hama e aveva funzionato, assicurando quasi tre decenni di stabilità per il regime.
Come gli altri regimi autoritari arabi che si trovano a dover fronteggiare le rivolte popolari, il regime di Assad è stato, almeno in parte, una vittima del suo stesso successo relativo.
I decenni di stabilità dopo Hama e l'effettiva cessazione, anche se non formalizzata, dello stato di guerra con Israele, avevano permesso la formazione di una nuova classe media urbana, un'impressionante salto qualitativo delle strutture scolastiche edilizie e il rilancio dei settori tradizionali dell'economia, in particolare l'agricoltura e le aziende artigianali, che sfuggivano al controllo del governo centrale.
L'operato di Assad in settori come l'alfabetizzazione, una maggiore efficienza dei servizi sanitari che ha contribuito ad aumentare l'aspettativa di vita, e l'accesso all'istruzione superiore, sono risultati significativamente migliori rispetto alla media dei 22 paesi membri della Lega Araba. Una nuova classe media urbana con aspirazioni politiche di stampo occidentale era emersa per poi trovarsi a dipendere da una struttura politica in stile Terzo Mondo. Il problema era che questa nuova classe media, politicamente imberbe per non dire immatura, si limitava a esprimere le proprie aspirazioni in modo disordinato. Non aveva una struttura politica e una leadership per tradurre queste aspirazioni in una strategia volta a realizzare un rimodellamento radicale della società siriana.
Pertanto, come gli altri paesi che hanno vissuto la Primavera araba, per non parlare delle rivoluzioni europee del 1848, la rivolta siriana fu messa davanti alla prospettiva di una sconfitta da parte dello Stato autoritario che essa voleva riformare. L'impossibilità di elaborare una strategia coerente ha creato un vuoto che ben presto altre forze hanno cercato di colmare.
La prima di queste forze è rappresentata dai Fratelli musulmani, l'avversario di più lunga data del regime di Assad e della macchina del Partito socialista della rinascita araba (Ba'th). Dopo essere rimasti a guardare nella fase iniziale della rivolta, i Fratelli musulmani, la cui leadership allora in esilio aveva il suo quartier generale in Germania, riattivarono le cellule dormienti e cominciarono a fomentare divisioni di natura settaria tra i musulmani sunniti e la minoranza alawita a cui appartiene Assad.
Paradossalmente, il regime incoraggiò indirettamente l'ascesa dei Fratelli musulmani per due motivi. Innanzitutto, esso sperava che una dose di settarismo avrebbe reso coesa la minoranza alawita, che era il 10 per cento della popolazione, intono al regime, convincendo così le altre minoranze, in particolare i cristiani, che costituivano circa l'8 per cento della popolazione, gli ismailiti e i drusi – che costituivano un altro 2 per cento – del fatto che avrebbero avuto migliori opportunità con un regime autoritario laicista piuttosto che con uno islamista sunnita. Per far capire bene questo punto, il regime cominciò a rilasciare un gran numero di miliziani islamisti sunniti, tra i quali c'erano molti futuri capi del Califfato dello Stato islamico (Isis). Assad si occupò anche dei curdi, che erano circa il 10 per cento della popolazione, molti dei quali si erano visti revocare la cittadinanza siriana negli anni Sessanta. In un decreto presidenziale, egli promise di restituire loro la cittadinanza, accennando a importanti concessioni sulla questione dell'autonomia interna alle minoranze etniche.
Incoraggiando gli aspetti settari del conflitto, Assad sperava inoltre di guadagnarsi le simpatie e l'appoggio delle democrazie occidentali che, allora come oggi, erano preoccupate dell'avanzare dell'Islam militante considerato come una minaccia alla loro stessa sicurezza.
Giocando la carta settaria, Assad ottenne anche un maggiore sostegno da parte del regime sciita della Repubblica islamica dell'Iran. Lo sciismo non riconosce gli alawiti come musulmani, meglio conosciuti negli ambienti clericali come Nusayris.
Tuttavia, Teheran sapeva che se il regime Nusayri di Damasco non rappresentava alcuna minaccia ideologica e teologica, i Fratelli musulmani e la loro dottrina del pan-islamismo invece lo erano. Teheran aveva bisogno di un regime amico a Damasco al fine di assicurarsi la continuità di accesso al vicino Libano, dove la Repubblica islamica esercitava un'influenza importante grazie al sostegno offerto al ramo libanese di Hezbollah.
Già godendo di una forte presenza in Iraq, la Repubblica islamica dell'Iran voleva che la Siria completasse la "mezzaluna sciita", considerata da Teheran come suo bastione e punto di accesso al Mediterraneo.
Nemmeno allora, la lotta per la Siria divenne un conflitto di natura settaria, così come non lo è oggi, anche se al suo interno si delinea come una guerra tra diverse fazioni. Altre forze sono presenti in questo complesso conflitto. Tra loro ci sono i dissidenti del Ba'th, in particolare i membri della sua ala di sinistra che era stata soppressa sotto Assad senior. Anche ciò che rimane dei vari partiti comunisti della Siria sono attivi, come sono esigui, ma dotati di esperienza, i gruppi nazionalisti (nasseristi) arabi.
Poiché quasi tutte le comunità etniche e/o religiose sono divise, e c'è chi si schiera dalla parte di Assad e chi combatte contro di lui, è difficile stabilire delle nette linee di demarcazione settarie. Anche i curdi sono profondamente divisi tra di loro, con il Pkk, il partito curdo turco, presente da decenni in Siria come esule, a fare da ago della bilancia.
Un'altra complicazione è dovuta al coinvolgimento di un crescente numero di potenze straniere, l'ultima delle quali è la Russia.
Abbiamo già parlato del coinvolgimento dell'Iran nel tentativo di proteggere un regime con cui non è mai riuscito a stringere una vera amicizia. Questa è stata fin dall'inizio un'alleanza dettata dalla necessità, e non per scelta, poiché Teheran aveva bisogno di Damasco per spaccare il mondo arabo durante la guerra tra Iran e Iraq durata otto anni a fronte della rivalità tra Assad senior e Saddam Hussein per la leadership del Ba'th panarabo.
Hafez Assad si recò a Teheran solo una volta, per qualche ora, e fu molto attento a imporre limiti severi alla presenza iraniana in Siria, pur beneficiando della generosità iraniana sotto forma di una riduzione del prezzo del petrolio, donazioni di denaro e forniture di armi. Fu solo sotto Bashar che la Siria permise all'Iran di aprire consolati fuori Damasco e istituì 14 "Centri culturali" per promuovere l'Islam sciita. Fu anche sotto Assad figlio che Teheran e Damasco raggiunsero un "accordo di cooperazione militare" relativamente limitato che prevedeva scambi di informazioni tra i servizi di intelligence militare.
Anche se più di un milione di iraniani si recano ogni anno in Siria in pellegrinaggio alla tomba di Zeynab (nipote di Maometto, N.d.T.), a sud di Damasco, quasi nessun siriano si è mai recato in Iran, mentre gli scambi commerciali tra i due alleati sono rimasti insignificanti. In un'intervista rilasciata poco prima di morire in combattimento nei pressi di Aleppo, il generale iraniano Hussein Hamadani ricordava come gli alti ufficiali dell'esercito siriano siano "molto riluttanti" a lasciare che l'esercito iraniano abbia voce in capitolo sulla pianificazione, per non parlare della conduzione, delle operazioni contro i ribelli anti-Assad. I generali siriani hanno ricevuto un'educazione laica, amano bere alcolici e guardano gli iraniani come fanatici medievali aggrappati a sogni anacronistici.
Ma nel 2015 l'Iran era il principale sostenitore del regime di Assad. Si stima che Teheran abbia speso qualcosa come 12 miliardi di dollari nell'impresa siriana, occupandosi anche del pagamento degli stipendi degli impiegati governativi nelle zone che sono ancora sotto il controllo di Assad. Al momento della stesura di questo scritto, Teheran ha perso 143 alti ufficiali nei campi di battaglia siriani. Inviato a combattere in Siria su ordine di Teheran, il ramo libanese di Hezbollah ha svolto un ruolo fondamentale nel contenere le perdite territoriali di Assad, soprattutto a sud vicino al confine con il Libano e ad ovest di Damasco. Secondo stime prudenti il numero delle perdite subite da Hezbollah nel 2014 e nel 2015 ammonta a oltre 800 combattenti, superiori di un terzo rispetto alle perdite subite nella guerra con Israele nel 2006.
La "Guida suprema" iraniana, Ali Khamenei, ha dichiarato ufficialmente che non avrebbe permesso un cambiamento di regime a Damasco, ed è l'unico leader straniero ad averlo detto.
Se l'Iran è il principale sostenitore di Assad, la Turchia è la principale fonte di sostegno delle forze contrarie ad Assad. Nel primo decennio del nuovo secolo, la Turchia, avendo la sua economia registrato una crescita sostenuta, investì più di 20 miliardi di dollari in Siria, trasformando così Aleppo e le province limitrofi in una parte dell'entroterra industriale turco. Mentre i detrattori della Turchia accusano Ankara di nutrire sogni neo-ottomani di dominio del Medio Oriente, è più probabile che i leader di Ankara considerino il pasticcio siriano come un'opportunità per loro di "risolvere" il problema dei secessionisti curdo-turchi che dagli anni Ottanta stazionano in territorio siriano.
La leadership islamica "morbida" della Turchia è sempre stata legata al movimento globale dei Fratelli musulmani e vuole che i suoi alleati siriani abbiano voce in capitolo sul futuro di questo paese.
La Turchia ha pagato un enorme tributo per il suo coinvolgimento siriano, più di quanto abbia pagato l'Iran per la sua ingerenza. A differenza di quest'ultimo, che non ha accolto un solo profugo siriano, la Turchia ospita più di 2,5 milioni di rifugiati siriani, che rappresentano una sfida umanitaria e alla sicurezza a lungo termine, in un momento in cui Ankara è alle prese con la recessione economica e le crescenti tensioni sociali.
La decisione di Ankara di spingere un gran numero di rifugiati a cercare asilo nell'Unione Europea è un tentativo volto a obbligare i paesi più ricchi del continente a togliere un po' di disturbo alla Turchia. Dopo quattro anni di pressioni, la Turchia non è riuscita a convincere il suo alleato americano ad appoggiare la sua idea di creare una zona cuscinetto e una no-fly zone in Siria inducendo almeno alcuni siriani a rimanere nella loro terra anziché diventare profughi in Turchia e in altri paesi vicini.
Tuttavia, è erronea l'ipotesi di Teheran che qualunque cosa accada in Siria non avrà alcuna incidenza sulla sicurezza iraniana, mentre la Turchia è in pericolo diretto. Lo Stato islamico (Isis) ha già raggiunto un tacito accordo di non oltrepassare una linea rossa a 40 km dai confini dell'Iran con l'Iraq, segnalando così la sua volontà di evitare uno scontro diretto con Teheran.
Non vi è alcuna garanzia che questo autocontrollo persisterà a fronte della disgregazione dell'apparato statale siriano e dell'Iraq. Le autorità iraniane hanno pubblicamente dichiarato che circa 80 gruppi armati dello Stato islamico sono presenti in Afghanistan e Pakistan vicino ai confini iraniani. La sicurezza dell'Iran potrebbe essere minacciata da un maggiore coinvolgimento delle varie comunità curde, degli esuli siriani, turchi e iraniani di questi paesi in un conflitto regionale più ampio. Il totale sostegno offerto dall'Iran ad Assad potrebbe anche far sì che la Repubblica islamica si trovi dalla parte dei perdenti, quando e se il regime di Damasco crollerà.
La Russia, anch'essa entrata nella mischia a sostegno di Assad, potrebbe già essersi pentita dell'avventata decisione di farsi coinvolgere in un conflitto che non capisce e in un paese dove, un quarto di secolo dopo il crollo dell'Urss, ha pochi contatti affidabili.
Tre eventi sembrano aver convinto il presidente Putin a moderare il suo iniziale atteggiamento entusiasta. Il primo è stato l'abbattimento dell'aereo passeggeri russo rivendicato dall'Isis, un monito a riflettere sul fatto che la Russia è vulnerabile come tutti gli altri paesi di fronte al terrorismo globale. Il secondo è stato l'abbattimento di un caccia russo da parte della Turchia, una chiara indicazione del fatto che in una situazione caotica come quella in Siria non c'è modo di garantire che ogni cosa rimarrà sempre sotto controllo. Il terzo episodio è stato l'attacco organizzato da una folla di sostenitori dell'Isis in una base militare russa in Tagikistan, apparentemente per vendicare l'omicidio di una ragazza del posto da parte di un soldato russo.
In Russia vivono circa 20 milioni di musulmani, praticanti o meno, la maggior parte dei quali sono sunniti e almeno teoricamente solidali con la maggioranza sunnita siriana ostile ad Assad. Il pieno sostegno russo ad Assad potrebbe provocare una risposta terroristica non solo contro i turisti russi, come abbiamo visto a Sharm el-Sheikh, ma in seno alla stessa federazione.
Il Libano è il paese che in modo più radicale e forse più stabilmente è colpito dal conflitto siriano. In territorio libanese sono arrivati più di 1,8 milioni di rifugiati siriani, alterando il delicato equilibrio demografico del paese.
L'attuale governo tecnico libanese, con il premier sunnita che dispone di enormi poteri esecutivi, è pronto a concedere il più velocemente possibile la cittadinanza ai nuovi arrivati. Se questi ultimi rimanessero lì a vivere, il Libano diventerebbe un altro Stato arabo a maggioranza sunnita, con i cristiani, gli sciiti e i drusi che insieme costituiscono non più del 45 per cento della popolazione.
Anche la vicina Giordania è fortemente colpita, in questo caso a favore della dominante élite hashemita. L'assorbimento di circa 1,2 milioni di profughi siriani, la maggior parte dei quali sunniti, e di un altro mezzo milione di rifugiati sunniti renderebbe più omogeneo il mix demografico a favore delle comunità non palestinesi, in particolare degli arabi beduini, dei circassi, della minoranza drusa, altaica e cristiana, che costituiscono non più del 35 per cento della popolazione.
Finora, il paese più direttamente colpito è l'Iraq, che ha dovuto cedere buona parte del proprio territorio, in particolare la terza città più popolosa, Mosul, al Califfato dello Stato islamico che ha eletto Raqqa, in Siria, come sua capitale de facto. I leader di Baghdad sono preoccupati all'idea che le potenze occidentali possano non accettare più una nuova spartizione del Medio Oriente che includerebbe la comparsa di un nuovo Stato a maggioranza sunnita composto da quattro province irachene e cinque siriane.
L'idea è già stata ventilata in Gran Bretagna dal neo leader del Partito laburista, Jeremy Corbyn, che ha proposto di aprire un canale di comunicazione con il Califfato per sondare la possibilità di avviare colloqui di pace e raggiungere un compromesso. Tale mossa equivarrebbe a un primo passo verso il riconoscimento di un nuovo Stato sunnita separato.
L'Iraq è inoltre preoccupato per il futuro delle zone curde sottratte all'Isis dai combattenti curdi provenienti dalla Turchia, Siria e dall'Iraq. I curdi restituiranno quelle terre a Baghdad una volta che tornerà la calma?
L'idea di un nuovo Stato sunnita sull'Eufrate ha promosso un'altra idea che è quella di uno Stato per le minoranze come gli alawiti, i cristiani, gli ismailiti e i drusi che si affacci sul Mediterraneo e si estenda dal Libano alla linea costiera lungo le montagne a ovest di Damasco. Questo corrisponderebbe approssimativamente a quella parte di Siria che durante il loro Mandato i francesi chiamavano "la Siria utile".
La Russia, un altro paese che di recente è stato coinvolto in Siria, potrebbe assicurare le infrastrutture aeronavali nel territorio di questo nuovo Stato, stabilendo così la sua presenza nel Mediterraneo.
Inutile dire che i curdi, divisi in comunità presenti in Siria, Turchia, Iraq, Iran, Armenia e l'Azerbagian (un'ex repubblica sovietica), sono già stati colpiti dal conflitto siriano. L'idea di uno Stato curdo unificato non è mai stata più presente nella fantasia dei curdi di tutta la regione. Ma la realizzazione di questo sogno non è mai sembrata tanto remota quanto lo è oggi. Numerose comunità curde e parecchi partiti sono impegnati in un'aspra lotta per il controllo della storia e del programma di questa minoranza etnica, avvicinandosi talvolta a un conflitto armato. Consapevole dei pericoli, il leader curdo iracheno Massoud Barzani è stato costretto ad accantonare frettolosamente il piano di dichiarare l'indipendenza curda in tre province irachene da lui controllate in coalizione con diversi altri partiti.
Uniti nella lotta contro l'Isis nel loro stesso territorio, i curdi sono profondamente divisi su cosa fare dopo; non si può escludere il rischio che essi utilizzino le loro armi – molte fornite dagli Stati Uniti – l'uno contro l'altro.
Il conflitto in Siria coinvolge anche altri paesi arabi e musulmani, in parte a causa dell'attrazione che esercita per il jihadismo creata dal Califfato e da altri gruppi islamisti come Jabhat al-Nusra (Fronte della vittoria). Al momento della stesura della presente relazione, i gruppi che rivendicano alcuni legami con i jihadisti siriani hanno compiuto attentati terroristici o hanno tentato di farlo in 21 paesi a maggioranza musulmana dall'Indonesia al Burkina Faso, passando dall'Arabia Saudita, Turchia, Egitto e Libia. Tali gruppi sono stati anche responsabili di attacchi o autori di attentati sventati in Francia, Belgio, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti.
I paesi arabi del Golfo Persico ricchi di petrolio sostengono attivamente i vari gruppi anti-Assad. Ma anche loro rischiano di reiterare la disastrosa esperienza avuta in Afghanistan quando aiutarono i jihadisti a combattere i comunisti locali e i loro sponsor sovietici che poi se ne tornarono con i talebani e al-Qaeda.
Di fatto, per più di mezzo secolo, vari leader jihadisti hanno sognato di assumere il controllo di almeno un paese arabo ricco di petrolio in grado di assicurare le risorse finanziarie necessarie per la loro strategia di conquista globale.
Alla fine di questo mese, si aprirà a Ginevra una nuova conferenza internazionale sulla Siria. Tra i punti all'ordine del giorno: un piano per la condivisione del potere, una nuova costituzione ed elezioni politiche sotto la supervisione delle Nazioni Unite entro due anni. Originariamente, il piano era stato elaborato nel 2012 da un think-tank con sede a New York e il testo fu fatto pervenire ad Assad attraverso due figure politiche libanesi di spicco. Assad lo accolse con prudenza. Il piano ottenne un certo sostegno da parte del Consiglio per la sicurezza nazionale nell'amministrazione Obama. Tuttavia, quasi all'ultimo minuto, il presidente Obama pose il veto, dichiarando pubblicamente che Assad doveva andarsene.
Se il piano aveva una minima possibilità nel 2012, oggi non ne ha praticamente nessuna. Il motivo è che nessuno in Siria è pienamente responsabile del proprio gruppo, presumendo che si possono scoprire fazioni facilmente riconoscibili in grado di agire come entità separate.
La Siria non era mai stata un'entità statale separata fino a quando il Mandato francese, sperimentando almeno cinque differenti versioni di entità nazionale, la trasformò in un'unica entità dopo la Prima guerra mondiale.
Nel 2011, quando Daraa innescò la rivolta nazionale, la Siria era diventata un vero e proprio stato-nazione con un senso di identità nazionale (in arabo Saryana) che non era mai esistito prima. Questa Saryana era evidente nella letteratura, nel cinema, nella televisione, nel giornalismo della nazione, e cosa ancora più importante, nella versione di arabo che la gente parlava da un capo all'altro del paese.
Con il crollo dello Stato siriano, che ora esercita un debole controllo di circa il 40 per cento del territorio nazionale, e l'intensificazione del conflitto con tutte le sue inevitabili sfumature settarie, questo senso di Saryana è stato sottoposto a pressioni sempre più forti e nelle aree che sono controllate dal Califfato è considerato come il nemico numero uno. La Siria oggi è un mosaico di emirati, grandi e piccoli, che coesistono e/o combattono sullo sfondo di un'economia bellica e l'enfasi sul particolarismo locale, etnico e religioso. Molti di questi emirati hanno sviluppato un sistema di convivenza che permette loro di gestire le comunità e guidarle in differenti direzioni. Nella maggior parte dei casi, la direzione in questione va verso ciò che viene venduto come "puro Islam maomettano" in molte forme differenti. Ma in alcuni casi, con grande sorpresa di molti, sono anche in corso timidi esperimenti di pluralismo e democrazia.
La sfida di oggi non consiste nel salvare, attraverso espedienti diplomatici, una Siria che ha per lo più smesso di esistere, ma nell'aiutare a creare una nuova Siria. Questa, tuttavia, è una sfida che nessuno oggi sembra disposto ad affrontare, e tanto meno è in grado di farlo.
Amir Taheri, già direttore dell'importante quotidiano iraniano Kayhan, prima della Rivoluzione iraniana del 1979, è un autorevole giornalista e scrittore che vive in Europa. È presidente del Gatestone Europe. Questa relazione sulla Siria è stata presentata al Seminario sulla sicurezza regionale organizzato dal George C Marshall European Center for Security Studies, a Monaco, in Germania, il 25 gennaio 2016.