Israele è giustamente considerato un paese in cui i cristiani conducono una vita più sicura rispetto a quanto accade in tutti gli altri paesi della regione. Ma in occasione della recente visita del Papa a Gerusalemme, due importanti quotidiani israeliani hanno pubblicato degli articoli di opinione che mettevano in dubbio questa tesi. Entrambi gli articoli sono disponibili in inglese. Contengono tutti e due degli errori di fatto, ma la loro maggiore colpa consiste nell'aver commesso degli errori di prospettiva più ampia. Tuttavia, è necessario migliorare i rapporti di Israele con i cristiani.
Israele e la regione
Scrivendo per il quotidiano a diffusione di massa Yedioth Ahronoth (il 26 maggio), Farid Jubran ha titolato un suo articolo "La vita dei cristiani in Israele non è così meravigliosa", pezzo che è stato rapidamente tradotto (il 30 maggio) per Ynetnews.com, la versione online in inglese dello stesso giornale. Di sicuro, egli ha ammesso innanzitutto che "la situazione dei cristiani in Medio Oriente è difficile. In Iraq, Siria e in Egitto, le chiese vengono incendiate e i cristiani massacrati a causa della loro religione come un fatto di ordinaria amministrazione. In alcune zone della Siria, è applicata la Sharia, la legge islamica. Ai cristiani è vietato celebrare i loro riti in pubblico e gli è stato imposto il pagamento di tasse speciali".
Eppure, secondo Jubran, tutto ciò è irrilevante per la situazione dei cristiani in Israele. Anzi, "accostare la situazione dei cristiani in Israele a quella dei loro fratelli in Medio Oriente è populista è vergognoso". Per quale motivo? Perché Israele è orgoglioso dei "valori condivisi con i paesi occidentali", e non del Medio Oriente. Così Israele "dovrebbe paragonare la situazione delle sue minoranze a quella delle minoranze presenti nei paesi con cui esso condivide i valori, piuttosto che alla situazione delle minoranze dei paesi mediorientali".
Jubran poi passa a elencare le varie sofferenze dei cristiani in Israele. La sua lista è in parte corretta, anche se sistematicamente esagerata, come vedremo. Ma innanzitutto prendiamo in considerazione la sua comparazione: i cristiani presenti in Israele con gli ebrei che vivono nei paesi occidentali.
Egli non si è accorto che gli ebrei in Occidente risentono degli stessi problemi enumerati nel suo elenco di rimostranze, anzi – in modo più grave. In tutta Europa, le sinagoghe e le altre istituzioni ebraiche sono sottoposte a severissime misure di sicurezza. È così in Israele, mentre le chiese e le istituzioni ecclesiastiche possono per lo più fare a meno di precauzioni drastiche. Per fare un esempio, qualche anno fa, questo giornalista soleva andare a far visita a un cristiano che viveva in una casa di riposo a Berlino. Nella stessa strada c'era una casa di riposo ebraica; la differenza era che quest'ultima era presidiata da un poliziotto ventiquattr'ore al giorno.
Un altro esempio, riportato il 24 giugno dalla BBC: "Le lapidi di un cimitero ebraico di Manchester sono state imbrattate con graffiti e svastiche antisemite (...) Oltre agli slogan e ai graffiti, una quarantina di pietre tombali sono state scoperchiate dai vandali". L'articolo spiega che non si è trattato di un singolo episodio, anche se il "North Manchester Jewish Cemeteries Trust ha detto che episodi del genere sono diminuiti nel corso degli ultimi tre anni".
Non è necessario fare altri esempi; Jubran deve solo consultare le inchieste periodiche pubblicate dalla Lega antidiffamazione. Diamo, dunque, un'occhiata ad alcuni dei suoi esempi.
"Gli ebrei in Israele", egli ha scritto, "sparano colpi d'arma da fuoco dentro le chiese e incendiano i monasteri, con la vernice a spruzzo disegnano graffiti calunniosi e tagliano le gomme delle automobili dei cristiani. Nella città vecchia di Gerusalemme, gli ebrei religiosi sputano addosso ai monaci e nei cimiteri cristiani le lapidi sono mandate in frantumi. Minacce di morte sono inviate ai vescovi e ai capi delle comunità cristiane".
Come già accennato, in Israele si sono moltiplicati gli episodi utilizzando il plurale al posto del singolare, mentre in alcuni casi non è chiaro di cosa si stia parlando. "Colpi d'arma da fuoco sparati nelle chiese?" Forse si riferisce a Haim Habibi, che insieme alla moglie cristiana Violetta fece esplodere dei petardi in una chiesa di Nazareth nel 2006.
"Incendiare i monasteri?" Nel 2012, fu appiccato il fuoco alla porta di un monastero nei pressi di Latrun. Come riportato da Ha'aretz: "Uno dei monaci del monastero ha detto che gli atti di vandalismo e l'incendio doloso sono le prime azioni di questo genere in centoventidue anni di vita del monastero" – e quindi anche in tutta la storia del sionismo moderno e dello Stato di Israele. Ma la denuncia di Jubran è esatta, per quanto concerne due chiese di Gerusalemme: una presa di mira nel 1982 e nel 2007 e l'altra nel 2010. I crimini non sono mai stati risolti e gli ebrei cristiani sospettano che siano coinvolti i gruppi anti-missionari.
"Nei cimiteri cristiani le lapidi sono state distrutte?" Un episodio del genere è accaduto sul monte Sion nell'ottobre 2013 e il sottoscritto ricorda un altro episodio risalente a una decina di anni fa in cui sono stati disegnati dei graffiti in un cimitero cristiano. Due casi disgustosi e deplorevoli, ma nessuno dei due è stato così grave come l'episodio di Manchester. Jubran è di certo al corrente dei numerosi attacchi contro l'antico cimitero ebraico sul Monte degli Ulivi, atti vandalici che sono diminuiti solo dopo aver installato circa 150 telecamere di sorveglianza. Ora, invece, i vicini musulmani attaccano gli ebrei che si recano in visita alle tombe dei loro cari. Incredibile a dirsi, ma quando gli autori degli atti di vandalismo vengono catturati spesso risultano essere dei minorenni, sia a Manchester sia fra gli ebrei e i musulmani di Gerusalemme.
Che "gli ebrei religiosi sputano addosso ai monaci" nella città vecchia di Gerusalemme continua a essere vero, anche se perfino i rabbini capo di Israele condannano questa abitudine rivoltante, soprattutto da parte degli studenti delle yeshiva i cui rabbini non riescono a educare e disciplinare. Ma non solo gli ebrei si comportano così nella città vecchia. Un conoscente cristiano ha di recente ordinato in un negozio della città vecchia degli articoli per l'ufficio. Mentre egli era in compagnia dell'addetto alla vendita, un ebreo ortodosso che indossava la kippah, i due ricevettero degli sputi tra l'andirivieni dei commercianti musulmani. In seguito, uno dei commercianti – che prima si era mostrato amichevole – gli disse che stavano solo aspettando l'opportunità di uccidere gli ebrei in una terza Intifada.
Jubran dice bene nella sua denuncia che Israele "limita enormemente l'attività delle chiese imponendo un rigoroso e discriminante regime in materia di visti per i religiosi cristiani" (anche se sarebbe meglio dire "notevolmente" piuttosto che "enormemente"). Ma rivedremo la questione in seguito, nella parte dedicata a ciò che Israele deve fare. La riflessione finale dell'articolo di Jubran – che la visita del Papa "funge da catalizzatore per un dibattito sui gravi problemi relativi ai cristiani e sul modo in cui affrontarli, [e] sarà un beneficio per tutti" – è fondata ed encomiabile. Questo avvocato arabo cristiano che risiede in Israele ha esagerato il caso, ma sarebbe insensato rifiutare la sua sfida.
Israele e l'Autorità palestinese (Ap)
L'articolo di Nicolas Pelham pubblicato da Ha'aretz (11 maggio) e titolato "Dov'è meglio essere cristiani: in Israele o in Palestina?", mostra un sommario provocatorio: "Nella fase di preparazione alla visita del Papa, i lobbisti israeliani magnificano il modo in cui Israele tratta la sua minoranza cristiana in contrapposizione ai palestinesi che invece 'perseguitano' la loro – ma i cristiani dove sono davvero sicuri e partecipi della vita pubblica?" L'articolo prosegue facendo vari paragoni fra l'Ap e Israele, e si scopre che – a quanto pare – la risposta a questa domanda è: "Sotto l'Autorità palestinese".
Questo è un articolo in cui la maggior parte dei singoli fatti è esatta, ma la superiorità attribuita all'Ap non lo è perché non si tiene conto di una prospettiva fondamentale. Pertanto, prendiamo in esame alcuni degli errori prima di spiegare come l'argomentazione sia errata.
Pelham inizia con l'affermare che la percentuale dei cristiani in Israele e sotto l'Autorità palestinese (Ap) è pressappoco la stessa: il due per cento. Infatti, secondo i dati demografici dell'Ap, la percentuale dei cristiani è prossima al due per cento in Cisgiordania (intorno ai 40.000 oltre ad alcune migliaia a Gerusalemme) e quasi nulla a Gaza (circa 1.500 o lo 0,1 per cento). Secondo l'Ufficio centrale israeliano di statistica, i cristiani sono il due per cento o più della popolazione complessiva, ma quelli arabofoni (intorno ai 130.000) sono circa il dieci per cento del settore arabofono, pertanto, la loro presenza in questo settore è assai maggiore rispetto a quella dei loro omologhi che vivono sotto l'Ap. Inoltre, anche se la percentuale dei cristiani arabofoni in Israele è in calo dal 1948, il loro numero assoluto è quasi triplicato. Un altro mio articolo contiene maggiori dettagli.
Pelham afferma che "il più importante politico cristiano del paese, Azmi Bishara, è stato cacciato da Israele con l'accusa di tradimento dopo che aveva osato insinuare che Israele dovrebbe essere uno Stato per tutti i propri cittadini". Ma il link cui fa riferimento Pelham non dice affatto questo, ma che Bishara stava affrontando gravi accuse e che aveva lasciato il paese per evitare il processo. In effetti, non pochi israeliani, ebrei o arabi, fautori di "uno Stato per tutti i propri cittadini" (una parola in codice per eliminare il carattere ebraico dello Stato), sono costretti a subire parecchie contestazioni verbali.
Egli sostiene inoltre che il premier israeliano Binyamin Netanyahu "nel suo primo mandato alla fine degli anni Novanta suscitò la rabbia cristiana perorando la costruzione di una moschea vicino alla Basilica dell'Annunciazione a Nazareth". Questa dichiarazione è del tutto falsa, ma Pelham è stato fuorviato dalla notizia diffusa dai media di tutto il mondo.
Secondo questa notizia, nel 1999 i musulmani di Nazareth confiscarono un'area vicino alla Basilica con l'intento di costruire una gigantesca moschea che torreggiasse su essa. Netanyahu approvò il progetto per ottenere il sostegno islamista al suo partito, il Likud (!) Si dette il via alla costruzione dell'edificio, ma i lavori furono poi interrotti da Ehud Barak, il successore di Netanyahu. Così la moschea non fu mai costruita.
Ciò che realmente accadde fu del tutto diverso. I musulmani confiscarono una piccola area ai piedi della collina su cui si trova la Basilica, con in mezzo delle case che le separavano, una strada secondaria e altre abitazioni. Il complesso della Basilica forse è venti volte più grande, in modo da dominare il sito della moschea. C'è inoltre una moschea costruita da lungo tempo, la cosiddetta Moschea Bianca, dalle dimensioni più grandi e più vicina alla Basilica.
Netanyahu e Barak non presero alcuna decisione personale in merito alla questione, ma istituirono delle apposite commissioni per farlo. Entrambe queste commissioni giunsero alla conclusione che i musulmani avrebbero potuto costruire una piccola moschea in loco. Inoltre, in attesa del parere espresso dalle due commissioni, un tribunale di Nazareth stabilì che parte del luogo in questione apparteneva al Waqf, l'ente islamico che gestisce le proprietà religiose islamiche, pertanto, il diritto di costruire una moschea non poteva essere negato; solo che i musulmani avrebbero dovuto dare il via al rigoroso procedimento israeliano per ottenere l'autorizzazione alla costruzione. Ma quando i musulmani cominciarono a costruire, presto sconfinarono oltre l'area che gli era stata assegnata, così un altro tribunale li costrinse a interrompere i lavori. Alla fine, i musulmani costruirono la piccola moschea nelle dimensioni consentite.
Se andate a Nazareth (cosa che quasi nessun giornalista ha fatto) potrete facilmente individuare la piccola moschea. Essa si trova appena dietro l'angolo dell'ufficio turistico municipale ed espone un grande manifesto con citazioni del Corano che denigrano il Cristianesimo e invitano i cristiani a convertirsi all'Islam. In breve, ciò che si può leggere nelle migliaia di articoli diffusi dai media e riguardanti la moschea è pura falsità. Qualche giornalista ha commesso l'errore originario che è stato copiato con entusiasmo da altri senza fare nessuna ispezione in loco. Attenzione: esitate a credere al parere unanime dei media su Israele se non avete verificato da soli.
Il problema principale nell'articolo di Pelham non risiede però in qualche errore veniale ma proprio laddove i fatti da lui riportati sono corretti. Egli ha infatti ragione nell'asserire che quasi nessun cristiano occupa posizioni preminenti negli ambienti governativi israeliani, ma che esiste un piccolo numero di cristiani che l'Ap ha investito di alte cariche e pochi altri occupano posizioni di primo piano nel commercio. Ma Pelham non ha preso in considerazione una differenza fondamentale tra i due regimi. Israele, come i paesi occidentali, è uno Stato di diritto. L'Autorità palestinese, come quasi tutti i paesi della regione, è una dittatura personale. Quindi, sono pochi i cristiani, il cui ruolo è utile per il volto pubblico della dittatura, che beneficiano della protezione del dittatore. La grande maggioranza dei cristiani, che non gode di questa protezione personale, risente dell'assenza dello Stato di diritto sotto l'Ap assai più dei concittadini musulmani.
Subito dopo la prima Intifada iniziata nel 1987, le fazioni palestinesi ordinarono alla polizia giordana (che Israele aveva lasciato in loco dal 1967) di andarsene. Quando Arafat arrivò dopo gli accordi di Oslo con i suoi 40.000 "militanti" (ovvero terroristi), a questi ultimi furono dati dei fucili e da militanti divennero poliziotti. Ma il loro compito principale era proteggere lo stesso Arafat, così le bande criminali continuarono a prosperare in assenza di una vera forza di polizia. A soffrirne di più furono i cristiani, poiché quasi nessuno di loro era presente nella polizia di Arafat, mentre i furti e i saccheggi da parte dei musulmani erano associati a una motivazione religiosa.
Nel corso degli ultimi anni, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno fornito uno specifico addestramento alle forze della polizia palestinese. Il tasso di criminalità è diminuito, ma la Palestina si è trasformata in uno Stato dove la polizia è legge assoluta e può non tener conto delle sentenze dei tribunali. Nel marzo 2013, un'indagine approfondita condotta dal britannico Daily Mail ha spiegato come funzionava questo. Oltre a descrizioni dettagliate dei metodi di tortura con diagrammi, il documento sostiene che, secondo "l'organo di controllo ufficiale dei palestinesi, la Commissione indipendente per i diritti umani", nei tre anni precedenti, ci sono stati 87 casi in cui un giudice aveva ordinato il rilascio di un detenuto, ma la polizia aveva semplicemente ignorato l'ordine. Uno di questi magistrati ha accettato di parlare con l'autore dell'indagine "lontano dagli agenti [della polizia segreta] del Mukhabarat nella privacy delle stanze ove lavorava". Il giudice ha detto: "Abbiamo deciso di rilasciarlo e poi il padre è tornato da me per dirmi che non era stato liberato. Ma il mio compito consiste nel prendere decisioni, non nel metterle in atto. Non è una situazione accettabile, ma non ho un esercito per costringerli a rispettare le mie decisioni".
Una situazione del genere è inconcepibile nei paesi occidentali come in Israele, dove tutti dal poliziotto più semplice al primo ministro devono obbedire alle decisioni giudiziarie. (Per inciso, colui che ha stabilito questo in Israele una volta e per tutte è stato Menachem Begin.) In Palestina, se una persona non dispone di livelli di protezione più elevati, non si sa se un giudice le garantirà o meno giustizia. I lettori del quotidiano palestinese Al Quds a volte trovano nelle pagine di questo giornale degli annunci personali da parte di gente che implora il presidente Abbas di intervenire personalmente nel loro caso. È altresì impensabile leggere annunci del genere nei paesi occidentali e in Israele.
Prendiamo in considerazione anche le seguenti dichiarazioni – fondamentalmente corrette – contenute nell'articolo di Pelham: "Nonostante le cifre in calo, nove comuni, tra cui Ramallah e Betlemme, stabiliscono che i loro consigli comunali debbano avere una maggioranza cristiana e un sindaco cristiano (...) mentre la Palestina ha otto deputati cristiani in Parlamento [perché certi seggi sono limitati solo ai candidati cristiani, N.d.A.], Israele ne ha due". Pelham non ha tenuto conto che tali condizioni sarebbero incostituzionali nei paesi occidentali. Sì, è vero, molti paesi dell'Occidente si dilettano a promuovere azioni positive in favore delle minoranze. Ma è inaccettabile che cariche come quella di sindaco o di parlamentare non siano aperte a tutti, indipendentemente dalla religione.
Allo stesso modo, se in Israele la Knesset approvasse una legge di questo tipo, la Corte Suprema, che ha anche funzioni di Corte costituzionale, l'annullerebbe. Così anche l'assegnazione di importanti incarichi ad alcuni cristiani da parte del presidente palestinese non può essere imitata in Israele, dove – come nei paesi occidentali – le nomine sono subordinate ai pareri espressi da commissioni di esperti o da qualunque altra cosa.
Arafat lanciò la moda di ignorare con disinvoltura le leggi approvate dal Consiglio legislativo palestinese (Clp) e quest'organo non si riunisce da sette anni. Pertanto, due membri cristiani della Knesset valgono qualcosa, ma otto cristiani membri del Clp non valgono nulla.
Rispetto alla sua lista circostanziata di reati commessi contro i cristiani in Israele, Pelham sembra sapere poco degli attacchi perpetrati negli ultimi vent'anni contro i cristiani in Cisgiordania e a Gaza. Egli menziona solo un attentato a una chiesa, ma omette, ad esempio, i molteplici attacchi contro altre chiese in seguito al discorso di papa Benedetto a Ratisbona (nel 2006). Pelham cita i graffiti apparsi sui muri delle istituzioni cristiane in Israele, ma non quelli in Palestina. Accenna al fatto che Mahmoud Abbas e anche Ismail Haniyeh partecipano occasionalmente alle funzioni religiose nelle chiese, ma non parla delle accuse lanciate al Cristianesimo nei sermoni trasmessi dagli altoparlanti delle moschee.
Forse la spiegazione è che in Israele tali reati sono perseguiti dalla polizia e dalla magistratura, pertanto esistono registri pubblici e i media li rendono di dominio pubblico, mentre in Palestina sono i privati e le Ong che compilano fascicoli e i giornalisti subiscono intimidazioni. Ancora una volta, secondo una recente documentazione di Al Jazeera, il problema non è dovuto al fatto che i palestinesi non hanno una legge sulla stampa e le pubblicazioni (dal 1995), ma al fatto che la legge è semplicemente ignorata dai servizi di sicurezza ("sono almeno 500 le violazioni della libertà di stampa documentate dal 2007, che includono arresti, detenzioni, torture, violenze fisiche e censura"). Pelham non è al corrente di questo?
Cosa può fare Israele
Innanzitutto, ci sono delle cose che i cristiani possono fare. Le statistiche mostrano che i cristiani in Israele superano perfino gli ebrei con riferimento a certi indicatori sociali, come i livelli di istruzione e di reddito. (Si noti, tuttavia, che tutti i confronti indiscriminati tra ebrei e arabi in Israele sono inutili a causa delle grandi disparità economiche tra musulmani e cristiani del settore arabo e tra gli ultraortodossi e gli altri nel settore ebraico.) Dunque, i cristiani sono sicuramente in grado di espletare le funzioni di funzionari statali.
L'ostacolo principale è rappresentato dal fatto che quasi tutti gli abitanti del settore arabofono non fanno il servizio militare né scelgono di svolgere il servizio civile nelle loro comunità. I sondaggi d'opinione mostrano che la maggioranza, musulmani e anche cristiani, sarebbero disposti a svolgere il servizio civile, ma i politici arabi ben organizzati e ben finanziati, che biasimano l'accoglimento della proposta da parte dello Stato come fosse un tradimento della causa palestinese, riescono a intimidirli impedendo loro di farlo. Questo li rende dei candidati non aventi diritto o discutibili a ricoprire posti dirigenziali nel settore pubblico.
Negli ultimi due anni, la situazione ha cominciato a cambiare, poiché un certo numero di cristiani arabofoni ha istituito un Forum per il reclutamento dei cristiani israeliani allo scopo di incoraggiare il servizio militare o civile volontario. I loro leader hanno organizzato incontri nei ministeri con i funzionari governativi, che hanno promesso loro di trovare il modo di assumere i cristiani che hanno ultimato l'una o l'altra forma di servizio pubblico, e che siano in possesso delle qualifiche professionali richieste.
Tutto questo, tuttavia, è finora frammentario. La grande lacuna da parte dello Stato di Israele è che esso non ha mai preso in considerazione la necessità di una politica nazionale nei confronti dei cristiani, che siano suoi cittadini o che si tratti dei due miliardi di cristiani che vivono ovunque nel mondo. Piuttosto, i singoli ministeri e qualche comune può nominare di volta in volta un individuo che abbia il compito di occuparsi delle questioni cristiane. A volte, questo posto rimane vacante e talvolta – come nel caso del ministero degli Esteri – è occupato da qualcuno che ha portato a termine un incarico importante ed è in attesa di un altro.
Ciò che occorre in Israele è un'unità politica centralizzata con il compito di sviluppare politiche a lungo termine per integrare i cristiani israeliani e interagire con una gran varietà di cristiani nei paesi stranieri. L'ubicazione ovvia di una tale unità sarebbe l'Ufficio del Primo ministro, ma dovrebbe avere carattere interministeriale. Sarebbe inoltre necessario avere uno staff di esperti, cosa che non è facile in Israele. Molti degli "esperti" sul Cristianesimo residenti nello Stato ebraico sono persone che ne hanno fatto un passatempo, ma che sono ignare delle cose molto elementari. Ad esempio, la maggior parte degli israeliani – anche quelli che ricevono l'incarico di occuparsi dei cristiani – chiamano erroneamente "evangelisti" i cristiani evangelici: e in tal caso, è ignorata una distinzione fondamentale.
Anche in assenza di un'unità politica del genere, si può iniziare a occuparsi di certi problemi che irritano la comunità cristiana israeliana e che non sono mai stati risolti, malgrado esistano da parecchi anni. Faremo tre esempi tipici:
La più annosa di tali questioni è quella di due villaggi cristiani vicino al confine libanese, Bir'im e Iqrit.
Durante la guerra d'indipendenza questi due villaggi rimasero pacifici, ma l'esercito israeliano chiese agli abitanti di lasciare le loro abitazioni con la promessa che vi avrebbero fatto ritorno nel giro di qualche settimana. Poiché la promessa non fu mantenuta, essi si appellarono nel 1953 alla Corte suprema israeliana, che ordinò allo Stato di indicare i motivi per i quali gli abitanti non avrebbero dovuto rientrare nelle loro case. Ci furono altri ricorsi del genere. Alla fine, il governo rispose distruggendo tutte le abitazioni. Durante la sua campagna elettorale del 1977, Menachem Begin promise che avrebbe permesso agli abitanti del villaggio di fare ritorno alle loro case, promessa che fu vanificata dal suo governo dopo che Begin divenne primo ministro. Anche il governo Netanyahu del 1996-1999 istituì una commissione che propose un compromesso che prevedeva un ritorno parziale, ma subito dopo Netanyahu dette le dimissioni.
C'erano anche altre iniziative che proponevano delle soluzioni ragionevoli, ma nessuna di esse fu mai attuata. Risolvere questo problema dopo molti decenni non avrebbe semplicemente avuto un immenso significato simbolico per i cristiani, ma avrebbe eliminato uno dei temi preferiti dalle critiche mosse a Israele nel mondo cristiano. Ad esempio, sentendo come l'arcivescovo Elias Chacour (ora in pensione) descrive la propria infanzia trascorsa nel villaggio di Bir'im si può solo immaginare l'indignazione che ciò suscita contro Israele.
Un altro problema simile, menzionato tanto da Jubran quanto da Pelham, è la consolidata abitudine di sputare addosso ai cristiani a Gerusalemme. Ciò accade soprattutto nell'area che si stende su entrambi i lati della Porta di Sion, includendo il quartiere armeno, la Chiesa della Dormizione e le istituzioni francescane. Gli autori di simili gesti sono legati a varie istituzioni ebraiche della zona e hanno preso anche l'abitudine di lanciare rifiuti e petardi. Tutto questo è risaputo e deplorato dalle autorità israeliane, ma la situazione persiste. Come per gli hooligan del calcio, per lo più sono coinvolti i giovani. Le squadre di calcio sono penalizzate per il comportamento scorretto dei loro tifosi. Allo stesso modo, dovrebbe essere possibile promulgare delle leggi che prevedano la sospensione dei finanziamenti pubblici per le istituzioni educative i cui studenti mettono in atto comportamenti simili. (La legge, ovviamente, dovrebbe applicarsi a tutte le istituzioni, a prescindere dall'appartenenza religiosa.)
Come accennato, la polizia israeliana non dispone ora di unità che indaghino sui crimini contro i cristiani e gli arabi. Sono però necessarie almeno due azioni. Innanzitutto, occorre una banca dati nazionale di tutti i crimini xenofobi, inclusi quelli contro gli ebrei, e l'obbligo da parte delle forze di polizia di segnalare tutte le denunce di questo tipo alla banca dati nazionale. E poi, alla fine, valutare le reali dimensioni del problema. In secondo luogo, il ministero della Sicurezza interna dovrebbe essere tenuto a redigere un rapporto annuale sulla questione da presentare alla Knesset, in modo da poter controllare i progressi fatti. (Il sottoscritto ha già avanzato una duplice proposta due anni fa in un incontro tra un alto funzionario del ministero e rappresentanti cristiani.)
E per finire, non è mai stata trovata una soluzione alla questione dei visti per i cristiani che lavorano in Israele, nonostante le interminabili discussioni. Tale problema ha diverse aspetti. In primo luogo, gli ecclesiastici di grado superiore di molte chiese, comprese quelle i cui membri sono prevalentemente arabofoni, sono spesso nominati dall'estero, poiché si tratta di chiese che si estendono in molti paesi e il loro personale meglio qualificato non è costituito da cittadini israeliani. In secondo luogo, ci sono delle antiche istituzioni educative cristiane che hanno bisogno di visti per gli insegnanti e per gli studenti. (Dovrebbe essere ovvia la necessità che hanno i cristiani di tutto il mondo di studiare in Terra Santa.) In terzo luogo, ci sono cristiani filo-israeliani, le cui istituzioni operano a Gerusalemme per mobilitare il sostegno a favore dello Stato di Israele, che spesso incontrano grandi difficoltà a ottenere i visti per il proprio personale essenziale.
Questo è un problema di fondamentale importanza per l'inesistente ma necessaria unità politica nazionale che dovrebbe occuparsi delle relazioni con i cristiani. Ma ai funzionari del ministero degli Interni risulta difficile immaginare perché ogni cristiano straniero che non indossi lunghe vesti e un buffo cappello dovrebbe avere diritto a soggiornare nel paese, un atteggiamento che crea problemi alle istituzioni cristiane che hanno bisogno di visti per i propri insegnanti, studenti e per il proprio personale. Nel corso di trent'anni di polemiche, solo Haim Ramon, che fu ministro degli Interni nel 1995-1996, è ricordato dai cristiani come un alto funzionario che ha afferrato i termini del problema e ha cercato di avviare una politica sensata. Ma Ramon ha ricoperto tale carica per troppo poco tempo.
In qualsiasi Stato di diritto, di certo, la legge ha bisogno di tempo per elaborare le proprie conclusioni. C'è un caso nel Regno Unito che preoccupa i cristiani britannici dal 2007 ed è quello di due coniugi cristiani che si sono rifiutati di affittare una stanza della loro pensione a una coppia di omosessuali, dicendosi però disposti ad aiutarli a trovare una sistemazione altrove. La causa antidiscriminazione avviata contro di loro è arrivata fino alla Corte Suprema. Più di recente, in un articolo del Daily Mail si legge che "il vicepresidente della Corte Suprema, la Baronessa Hale, ha invitato a rivedere i diritti religiosi e dei gay sei mesi dopo aver respinto le argomentazioni dei proprietari del B&B in un importante banco di prova". E l'articolo aggiunge: "A marzo però ella ha riconosciuto che la legge che non tiene conto delle coscienze cristiane non può essere 'sostenibile'. La settimana scorsa, con una mossa molto insolita. Lady Hale e i suoi colleghi giudici hanno disposto che i coniugi Bull non saranno considerati responsabili per le spese legali – una decisione che evita loro di pagare una somma ingente agli avvocati delle due controparti Steven Preddy e Martyn Hall". (In questi casi, naturalmente, sono i legali che finiscono per intascare molto più denaro rispetto ai querelanti e che devastano le finanze degli imputati.)
Pertanto, la legge opera lentamente ovunque. Ma in Israele, in alcuni casi, è a tutti gli effetti troppo lenta.