Tre donne iraniane detenute nella famigerata prigione di Qarchak, a Teheran, sono state di recente condannate a più di dieci anni di carcere. Il loro "crimine"? Non aver indossato il velo, sfidando così il codice di abbigliamento del paese. Nella foto: Una poliziotta iraniana (a sinistra) ammonisce – il 22 aprile 2007, a Teheran – una donna in merito agli abiti indossati e ai capelli al vento, durante una campagna di repressione lanciata dalle autorità per imporre il codice di abbigliamento del regime. (Foto di Majid Saeedi/Getty Images) |
Tre donne iraniane detenute nella famigerata prigione di Qarchak, a Teheran, sono state di recente condannate a più di dieci anni di carcere. Il loro "crimine"? Non aver indossato il velo, sfidando così il codice di abbigliamento islamico del paese.
Le donne erano state arrestate dopo che un video messo online in occasione della Giornata internazionale delle donne era diventato virale. Nella clip, si vedono le tre donne senza velo mentre distribuiscono fiori alle passeggere della metropolitana di Teheran.
"Verrà il giorno in cui le donne non saranno costrette a lottare", afferma una di loro, mentre un'altra esprime la speranza che in futuro le donne che indossano l'hijab saranno in grado di camminare fianco a fianco delle donne che decidono di non indossarlo.
La battaglia a favore del diritto delle donne a non coprirsi il capo ha spinto la giornalista e attivista irano-americana Masih Alinejad – autrice del libro The Wind in My Hair: My Fight for Freedom in Modern Iran – a fondare [nel 2014] un movimento social chiamato "My Stealthy Freedom" ("La mia libertà furtiva").
Il movimento, come parte dei suoi sforzi, ha lanciato l'hashtag #WhiteWednesdays (Mercoledì Bianchi), in cui le donne possono condividere foto e video che le ritraggono in luoghi pubblici senza velo – o immagini di se stesse che indossano simbolici copricapo bianchi e altri indumenti – e possono scambiarsi le loro opinioni sui diritti delle donne.
Nei cinque anni successivi alla sua fondazione, il movimento My Stealthy Freedom ha ricevuto migliaia di foto e di video e ha attirato più di un milione di follower.
In una recente intervista rilasciata al Gatestone, Alinejad, "autoesiliata" a New York, ha dichiarato:
"Da 40 anni, le autorità della Repubblica islamica usano la coercizione, l'umiliazione pubblica e la violenza per reprimere le donne. Oggi, a differenza di allora, le donne reagiscono e chiedono i loro diritti. Ho avviato nel 2014 la mia campagna My Stealthy Freedom contro 'l'uso obbligatorio dell'hijab' e da allora è cresciuta enormemente, con iniziative come Mercoledì Bianchi che hanno dato al regime grattacapi costanti, perché le donne sono diventate più coraggiose nello sfidare le autorità per difendere i loro diritti civili.
"Le autorità della Repubblica islamica affermano che 'l'hijab obbligatorio' è sancito dalla legge, che deve essere osservata. Tuttavia, le cattive leggi devono essere contestate e modificate. Oggi, le donne che lottano contro la legge che sancisce l'uso obbligatorio dell'hijab rappresentano la maggiore minaccia al regime clericale in Iran e, come un fiume che finirà per superare qualsiasi ostacolo, queste donne non possono essere fermate.
"Ma noi abbiamo bisogno del sostegno della comunità internazionale per sollevare tale questione con le autorità iraniane e agire".
Gli scritti della Alinejad e la sua difesa politica costituiscono tuttavia un danno ancora maggiore. Nel 2018, la giornalista scrisse sul New York Times di non potersi recare in Iran dal 2009, per paura di essere arrestata. Inoltre, la sua famiglia, che "vive ancora nel povero villaggio nella parte settentrionale dell'Iran in cui [lei] è cresciuta", ha subito intimidazioni da parte della polizia del regime – al punto che sua sorella l'ha ripudiata pubblicamente sulla televisione iraniana, in prima serata.
Facendo riferimento all'interrogatorio di due ore a cui è stata sottoposta di recente l'anziana madre della Alinejad, Amnesty International è preoccupata "che le autorità potrebbero inserire in futuri video di propaganda delle dichiarazioni da lei rese sotto coercizione, tenuto conto del fatto che il regime pratica da lunga data questo tipo di abusi".
Gli attivisti non-violenti per i diritti umani vengono spesso presi di mira dal regime iraniano. Ad esempio, Akbar Mohammadi, fratello di Nasrin Mohammadi, l'attivista iraniana per i diritti delle donne che risiede negli Stati Uniti, fu arrestato durante la rivolta studentesca del 1999. Akbar venne torturato e infine ucciso dopo sette anni di prigione. Nel 2012, Nasrin ha pubblicato il libro Ideas and Lashes: The Prison Diary of Akbar Mohammadi sulle torture che portarono alla morte suo fratello.
"La repressione violenta delle donne in Iran è solo un altro esempio di oppressione che la popolazione iraniana subisce quotidianamente", ha dichiarato al Gatestone Nasrin Mohammadi.
"La legge religiosa che il governo ha imposto dopo la rivoluzione del 1979 è alla base di questa tirannia. In Iran, le donne sono cittadine di seconda classe ed essenzialmente schiave. La comunità internazionale deve avere il coraggio di delegittimare la legge religiosa e di denunciare la sua natura tirannica. Proprio come il mondo libero ha delegittimato il comunismo durante la guerra fredda, dovrebbe fare lo stesso con la legge religiosa.
"La comunità internazionale dovrebbe anche concentrarsi sull'Iran, e combattere per porre fine a quel regime e ad altri governi simili in tutto il mondo. L'Iran è esemplificativo, perché si tratta di un regime corrotto, in cui la religione è usata come pretesto per sottrarre denaro e potere alla popolazione".
Nasim Basiri, un'altra attivista iraniana che vive negli Stati Uniti – ed è assistente presso il Women, Gender and Sexuality Studies Department dell'Oregon State University – ha detto al Gatestone che, nonostante i rischi connessi, in Iran, il movimento femminista è in crescita.
Secondo la Basiri "le femministe straniere possono essere delle alleate e fungere da portavoce per le donne iraniane e le attiviste per i diritti delle donne".
E ha aggiunto:
"Molte femministe iraniane credono che le politiche occidentali abbiano favorito la dittatura in Iran che ha provocato un aumento della violenza culturale e politica contro le donne. Non vogliono subire ciò che hanno subìto le donne afgane e irachene a causa delle guerre. Questo non porta alla liberazione e fornisce pretesti ai regimi autoritari per mettere a tacere le donne in nome della protezione della nazione e della lotta contro 'l'imperialismo'".
Faranak Rostami, una profuga iraniana in Qatar, ha detto al Gatestone:
"Le donne iraniane vogliono davvero scambiare questo regime con un governo liberale. Noi abbiamo bisogno della libertà e dell'uguaglianza di genere in tutti i settori. Senza quelle, occorrerà accordarci lo status di rifugiate all'estero".
Uzay Bulut, una giornalista turca, è Distinguished Senior Fellow presso il Gatestone Institute.