I palestinesi che vivono in Libano sono preoccupati che le autorità libanesi possano usare il coronavirus come un pretesto per rafforzare ulteriormente le restrizioni ai campi profughi, dopo che Samir Geagea, un eminente politico libanese, ha chiesto la chiusura immediata dei 12 campi profughi palestinesi del suo Paese. Nella foto: Palestinesi che protestano il 31 gennaio 2020 ad Ain el-Hilweh, il più grande campo profughi palestinese del Libano. (Foto di Mahmoud Zayyat/AFP via Getty Images) |
Mentre Israele lavora alacremente per contrastare la diffusione del coronavirus tra i palestinesi, i Paesi arabi sembrano fare del loro meglio quando si tratta di aiutare i loro fratelli palestinesi, ossia non fanno assolutamente nulla.
Nei giorni scorsi, le autorità israeliane hanno consegnato all'Autorità Palestinese, che governa in Cisgiordania, 200 kit di test del Covid-19. Per di più, team di professionisti israeliani e palestinesi lavorano insieme per arrestare il contagio del virus.
Le autorità israeliane hanno altresì consegnato altri 200 kit di test a Hamas, al potere nella Striscia di Gaza, nonostante le migliaia di razzi e di aerostati esplosivi e incendiari lanciati verso Israele.
Inoltre, le autorità israeliane hanno disposto il trasferimento di 20 tonnellate di materiale disinfettante dagli impianti israeliani a quelli palestinesi. Il materiale include cloro e perossido di idrogeno, sostanze impiegate per la disinfezione, la preservazione dell'igiene e la sanificazione. Questo materiale viene utilizzato per la pulizia delle superfici in spazi aperti e aiuta a pulire le aree chiuse, tra cui moschee e chiese.
Va rilevato che l'Egitto, che condivide un confine con la Striscia di Gaza, non ha inviato alcun kit di test del coronavirus né materiale disinfettante ai palestinesi che vivono lì.
Intanto, i palestinesi che risiedono in Libano sono preoccupati che le autorità libanesi possano usare il coronavirus come un pretesto per rafforzare ulteriormente le restrizioni ai campi profughi.
Samir Geagea, un politico libanese e presidente delle Forze libanesi, un partito politico cristiano antipalestinese, è stato fortemente criticato per aver chiesto la chiusura immediata dei 12 campi profughi del suo Paese.
Secondo l'UNRWA, l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi, nel gennaio del 2019, in Libano c'erano 475.075 profughi palestinesi. "I palestinesi in Libano non godono di molti diritti importanti", ha rilevato l'agenzia dell'ONU.
"Sono esclusi da ben 39 professioni e non hanno il diritto di possedere proprietà [immobiliari]. Poiché non sono formalmente cittadini di un altro Stato, i rifugiati palestinesi non sono in grado di rivendicare gli stessi diritti di altri stranieri che vivono e lavorano in Libano. Il conflitto in Siria ha costretto molti palestinesi della Siria a fuggire in Libano in cerca di sicurezza. Quasi 29 mila di loro stanno ricevendo assistenza nel Paese da parte dell'UNRWA, sotto forma di aiuti finanziari, istruzione, assistenza sanitaria e protezione".
In Libano, ai profughi palestinesi è negato l'accesso a numerose professioni, tra le quali medicina, legge e ingegneria.
"Dopo oltre settant'anni, il Libano continua a essere il Paese in cui i profughi palestinesi soffrono di più e sono privati di molti dei loro diritti economici e umani, incluso quello di svolgere la propria attività in determinati settori; hanno complicazioni procedurali a ottenere permessi lavorativi e si vedono negare il diritto alla proprietà", ha dichiarato Mohsen Saleh, direttore generale del Zaitouna Center for Studies di Beirut.
"Le continue restrizioni imposte ai profughi palestinesi, che negano loro il diritto al lavoro, portano a sentimenti di ingiustizia e di oppressione. Ciò li lascia aperti all'estremismo e ai problemi sociali. Possono essere sfruttati, danneggiando il Libano, la sua sicurezza e la relativa stabilità. Pertanto, consentire ai profughi palestinesi di lavorare in condizioni dignitose è un imperativo politico, di sicurezza e sociale per il Libano, nonché un'esigenza economica".
I palestinesi sono ora preoccupati che, oltre alle misure discriminatorie e di apartheid, le autorità libanesi possano confinarli nei loro campi profughi con il pretesto di combattere il coronavirus. Sono preoccupati che la pretesa "razzista" di Geagea di imporre la chiusura loro campi aggraverebbe notevolmente le condizioni umanitarie e sanitarie dei palestinesi.
Tayseer Khaled, dirigente di spicco del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP), ha definito la proposta di Geagea "razzista e inaccettabile". L'idea di imporre la chiusura dei campi profughi, egli ha detto, "è in violazione dei diritti e dei valori umani".
Un'altra fazione dell'OLP, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), ha replicato asserendo che "devono essere messe in isolamento le menti razziste e non i campi profughi".
Secondo l'attivista palestinese per i diritti umani, Mohammed al-Shuli, nella guerra al coronavirus non dovrebbero esserci discriminazioni tra libanesi e palestinesi. Al-Shuli ha rilevato che le autorità libanesi non hanno imposto alcun blocco a nessuna città o villaggio libanese né hanno vietato ai loro cittadini di uscire di casa.
"La dichiarazione di Geagea non è una misura politica rivolta solo ai palestinesi", ha commentato l'attivista palestinese. "Nei campi profughi, non è stato registrato nessun caso di coronavirus e i palestinesi non si oppongono alle misure precauzionali. Non occorrono tali dichiarazioni estremiste".
Anche un gruppo chiamato l'Alleanza delle Fazioni palestinesi in Libano ha condannato come "razzista" la proposta del politico libanese. "Questa epidemia globale colpisce Paesi e comunità, e speculare su questo a spese dei profughi palestinesi e del loro diritto alla vita è riprovevole e inaccettabile", ha scritto il gruppo in una nota diffusa. "La richiesta rispecchia la mentalità oscura del politico libanese".
Mentre i palestinesi hanno espresso preoccupazione per le leggi discriminatorie e di apartheid del Libano, Assad Abu Khalil, un altro professore americano di origine libanese presso la California State University, Stanislaus se n'è uscito con un'altra calunnia del sangue contro Israele: l'unico Paese che sta aiutando i palestinesi nella guerra al coronavirus. L'8 marzo, il docente ha twittato: "Israele – ne sono certo – attiverà differenti procedure sanitarie per gli ebrei e i non ebrei. I non ebrei saranno messi in prigioni di massa".
Il docente libanese, il quale afferma di essere "pro-palestinese", non sembra preoccupato delle severe restrizioni imposte ai palestinesi dal suo Paese: il Libano. Né sembra infastidito del fatto che un funzionario libanese (e non israeliano) sia quello che di fatto chiede di mettere i palestinesi in "prigioni di massa".
Appare evidente che sarebbe imprudente per i palestinesi nutrire qualsiasi illusione che Libano, Egitto o la maggior parte dei Paesi arabi verrebbero loro in aiuto, in particolar modo alla luce della pandemia di coronavirus. Il Libano discrimina i palestinesi da decenni e difficilmente sembra che cambierà la propria politica solo a causa di un virus.
L'Egitto, da parte sua, ha da tempo abbandonato i palestinesi, sigillando il suo confine con la Striscia di Gaza. I libanesi, gli egiziani e la maggior parte degli arabi considerano i palestinesi come un problema di Israele. Quando l'attuale crisi del virus sarà superata, si spera che i palestinesi ricorderanno che solo un Paese è intervenuto in loro soccorso: Israele. Potrebbero anche ricordare che i loro fratelli arabi li hanno traditi non per la prima volta e di certo non per l'ultima.
Khaled Abu Toameh è un pluripremiato giornalista che vive a Gerusalemme. È Shillman Journalism Fellow al Gatestone Institute.